La sconfitta di Alemanno a Roma e L'OCCASIONE PERDUTA DELLA DESTRA
La sconfitta di Alemanno a Roma è così netta da non ammettere giustificazioni di sorta. Certo, il crollo del Pdl in tutta Italia sembra attutire il risultato romano, ma ciò non toglie che la riconsegna della capitale nelle mani del Pd sancisce il fallimento di un’esperienza di governo che doveva segnare un cambiamento d’indirizzo mai avvenuto; peraltro in una città che è stata il laboratorio sperimentale delle bizzarrie ideologiche della sinistra italiana e che ora, probabilmente, tornerà ad esserlo. La prima giunta di centro-destra della storia di Roma rischia di finire nel dimenticatoio, come un banale incidente di percorso nel dominio che il Pd ha sempre esercitato nella capitale e che ora ha riconfermato con la surreale candidatura di Marino.
La destra romana, la cui classe dirigente aveva saputo sviluppare movimenti metapolitici radicati sul territorio e idee innovative su modelli urbanistici, culturali e sociali, ha perso un’occasione unica per provare a mettere in pratica quello che aveva immaginato per almeno vent’anni.
Alemanno è il primo sindaco di Roma uscente a non essere riconfermato. Sia Rutelli che Veltroni avevano proseguito la loro esperienza di governo con un secondo ampio mandato elettorale a conferma di riconosciute doti di leadership, forti squadre di governo e convincenti progetti per la città. Qualunque possa essere il giudizio su di loro, sia Rutelli che Veltroni hanno lasciato nella città un segno, una memoria, una traccia. Alemanno no: non ha lasciato un progetto coraggioso, né una visione innovativa che abbia rappresentato una discontinuità rispetto a prima. Si è circondato di una classe dirigente spesso inadeguata ai ruoli, pensando che la debolezza di chi aveva intorno rendesse più facile la sua leadership, mentre invece la indeboliva. La Roma che lui lascia non è una città migliore per qualità della vita, rapporti sociali, organizzazione urbana, rispetto a quella dei sindaci che lo hanno preceduto: anzi, per certi versi è peggiore.
Certo, Alemanno ha dovuto ereditare una situazione difficile in termini economici, con un bilancio disastrato ricevuto in eredità dai suoi predecessori; e sicuramente la giunta Alemanno non ha trovato nella complessa macchina amministrativa della città (costruita in questi anni sulle capacità clientelari della sinistra) un valido alleato.
Ma la realtà è che, in questi cinque anni, Alemanno è stato un sindaco a mezzo servizio, diviso tra il ruolo di primo cittadino di una delle più complesse capitali europee e le mai sconfessate ambizioni di leadership nazionale e di capo di una corrente di partito. Alemanno non ha mai amato veramente Roma, e Roma lo ha ricambiato; per lui, questa città è stata soprattutto un’occasione per riprendersi un ruolo politico nazionale, e non certo un tentativo di costruire un progetto di governo cittadino, innovativo ed esportabile.
L’attuale crisi dei partiti e la loro incapacità di selezionare classe dirigente consente a sindaci e governatori di rivestire ruoli sempre più centrali; governare una città o una regione diventa il modo per definire una leadership legittimata e mediaticamente riconoscibile. Ma per fare questo occorre comprendere la trasformazione della sovranità che si sposta sempre più negli spazi in cui ancora la politica può decidere qualcosa ed avere un rapporto diretto con la società. Per questo un sindaco che aspira ad un ruolo nazionale deve saper costruire la sua base di consenso proprio partendo dalla sua città, dando chiaro segno di saperla, e soprattutto volerla, governare. Fu così per Veltroni, che costruì a Roma la sua leadership nazionale ed il progetto del Partito Democratico.
Ora, il giudizio su Alemanno s’incrocia inevitabilmente con quello su Matteo Renzi: il rottamatore, da sindaco di Firenze, è diventato uno dei protagonisti della scena politica nazionale. Il capo della destra sociale del Pdl, nel fallimento della sua esperienza di sindaco di Roma, rischia di veder compromesse aspirazioni e prospettive.
© Il Tempo, 11 Giugno 2013