DAL SERCHIO AL DON SOLO ANDATA....l'introduzione al mio libro
A presentarlo furono il giornalista rai Pino Scaccia e l'avvocato Marco Brancoli Pantera.
Su questo sito si possono trovare i nomi di tutti i caduti e dispersi nella tremenda campagna di Russia residenti nel comune di Borgo a Mozzano (Lucca)....vedi in questa sezione
Pubblico, di seguito l'introduzione che ho fatto su quel libro:
UN FIORE SULLA INTROVABILE SEPOLTURA
Finalmente abbiamo abbiamo concretizzato un’idea a lungo accarezzata: quella di affidare alla memoria collettiva il ricordo di tanti giovani uomini che, nel momento più bello della loro vita, partirono per una terra lontana e sconosciuta e non fecero più ritorno agli affetti che avevano lasciato: i caduti e i dispersi nella tragica campagna di Russia del 1942 e 1943.
La realizzazione di questo libro/memoria è merito soprattutto del carissimo amico (da sempre) Marcello Martini con cui ho condiviso l’idea di questa ricerca e di questa pubblicazione, ma che, in pratica, si è sobbarcato l’onere della ricerca dei documenti e dei contatti con le famiglie, per tentare di far riemergere quel poco che ancora poteva essere trovato, prima dell’oblio definitivo.
Purtroppo siamo arrivati fuori tempo; con trenta o quaranta anni di ritardo; quando le mamme, le spose, i familiari più stretti erano ormai scomparsi e la memoria appannata.
Ma non sempre si scelgono i tempi, a volte i tempi scelgono noi.
Con Marcello Martini ho condiviso l’interesse per la storia, controversa e difficile, della seconda guerra mondiale e degli anni che la precedettero e la seguirono; di quel novecento di lutti e tragedie, di guerre combattute non solo al fronte, di deportazioni e stragi; il secolo dei lager e dei gulag; il secolo della shoah.
Entrambi siamo nati pochi anni dopo la conclusione di quella guerra e nella nostra infanzia e giovinezza abbiamo respirato l’aria ancora ammorbata dagli odii e dalle divisioni profonde; anche se i più cercavano di rimuovere dalla memoria i ricordi più brutti e la tristezza dal cuore.
Entrambi i nostri padri erano reduci della campagna di Russia ed i loro racconti della lunga tradotta che attraversava una Europa sconosciuta, sull’avanzata nelle steppe sterminate e sulla tragica ritirata del gennaio ‘43 non saranno mai dimenticati.
Mio padre, Carlo Settimo, era un alpino della Cuneense, quella che la storia ha chiamato la “divisione martire” ed ha fatto la ritirata, iniziata il 17 gennaio 1943, festa di S. Antonio Abate, nelle condizioni peggiori, con un piede congelato; salvandosi grazie all’aiuto generoso di un compaesano dello stesso Battaglione (il Saluzzo) e della stessa Compagnia (la 21a) che lo aveva sorretto ed aiutato: si tratta di Mario Ricciarelli, sergente maggiore della Cuneense che, purtroppo, è scomparso nella terribile tormenta.
Il giorno 26 gennaio mio padre partecipa alla battaglia di Nicolaieska insieme agli alpini della Tridentina con cui, dopo lo sbandamento ed annientamento della Cuneense, si era ritrovato.
Per lui la ritirata si conclude il 5 febbraio a Bielgorad, dove viene caricato su una tradotta, portato a Leopoli e di lì in Italia e ricoverato all’Ospedale Militare di Cervia (rientrò ad Oneta il 25 maggio 1943).
Anche un mio zio, Armando Brunini, caporale del 4° reggimento di artiglieria alpina della Divisione Cuneense è tra i “dispersi” e, come è stato per migliaia di congiunti, nella più segreta parte del cervello di mio padre era coltivata la speranza che un giorno, forse, si sarebbe saputo che Armando era vivo, in qualche sperduta parte della immensa Russia, dove i prigionieri era stati portati a lavorare.
Perfino diversi films nel dopoguerra, ultimo “I girasoli” di Zavattini, del 1969, con Marcello Mastroianni e Sofia Loren, avevano alimentato questo possibile sogno.
All’inizio del conflitto mio padre e due suoi fratelli (Armando ed Enrico) erano contemporaneamente sotto le armi, nel corpo degli alpini. Enrico, reduce dai Balcani, essendo padre di una bambina (Annamaria Brunini) ottenne la possibilità del congedo e rientrò ad Oneta, mentre i due fratelli partivano per la Russia il 5 agosto 1942.
Il 6 settembre del 1994 quando, dopo il crollo del regime comunista sovietico, si aprirono finalmente gli archivi segreti e furono accessibili gli elenchi meticolosamente tenuti da quei perfetti contabili di morte che gestivano i lager, si ebbe notizia che il “caporale Armando Brunini - nato a Oneta il 31/07/1917 -ritenuto disperso sul fronte russo il 31/01/1943 per eventi bellici, è deceduto, durante l’anno 1943, dopo essere stato fatto prigioniero, nel lager sovietico n.56 Uciostoje – Staz. Chobotovo – Reg. Tambov e sepolto in una fossa comune”; questa la fredda lettera della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ricevuta da tante famiglie in quei mesi.
Mio padre rimase profondamente turbato da quella comunicazione, La domenica precedente l’arrivo della missiva, il 4 settembre, c’era stata una bellissima festa degli alpini al Borgo e, per l’ occasione, mio padre aveva invitato il suo comandante di compagnia in Russia, il capitano Domenico Mina, di Saluzzo; fu il loro ultimo incontro.
Il successivo 22 ottobre mio padre morì; si ricongiunse, nel “Paradiso di Cantore” a suo fratello Armando, che non vedeva dal lontano Natale del 1942, quando avevano passato qualche ora insieme sul Don, pensando alle cose più care del loro paese di Oneta, alle fidanzate, a tanti ricordi che in quel giorno apparivano così belli e così tanto diversi dalla triste condizione che, in quel freddissimo Natale, si trovavano a vivere, a migliaia di chilometri di distanza dalla propria terra.
Il nostro Comune di Borgo a Mozzano, come gli altri comuni della valle del Serchio era, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, zona di reclutamento alpino e, pertanto, la maggior parte dei giovani chiamati al servizio militare erano destinati alle grandi divisioni alpine che avevano le loro caserme nell’Italia del nord, alle propaggini delle alpi.
All’inizio degli anni ’40 dal nostro territorio le reclute vennero avviate, principalmente, alla divisione Cuneense che aveva sede proprio nella provincia piemontese, da cui traeva il grosso dei propri effettivi. Alpini del nostro Comune si ritrovano anche nelle divisioni Julia e Tridentina, presenti in Russia assieme alla Cuneense.
Le prime partenze per il fronte russo avvennero nel 1941, quando sotto la guida del generale Giovanni Messe partì un contingente di 62.000 uomini inquadrati nel CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia). Due le divisioni autotrasportate, la Pasubio e la Torino , più una divisione celere.
Nel 1942 l’Italia decise di aumentare la forza del proprio contingente , scaraventando nell’impresa altri 170.000 uomini e trasformando il corpo di spedizione in una vera e propria armata, l’ARMIR (Armata Italiana in Russia – 8a armata). Con le partenze del luglio e agosto 1942 (molti dei soldati citati in questo libro partirono con questo contingente) l’ARMIR arrivò a 230.000 uomini inquadrati in dieci divisioni, le tre dell’ex CSIR, le divisioni alpine Tridentina, Julia e Cuneense più le divisioni Sforzesca, Cosseria, Ravenna e Vicenza. L’area operativa fu in prima linea, lungo il Don, tra l’armata ungherese e quella rumena, a presidio del fianco settentrionale del cuneo tedesco su Stalingrado. Alla guida dell’armata fu designato il generale Italo Gariboldi.
La partenza delle Divisioni alpine per la Russia fece si che la maggior parte dei nostri giovani fosse coinvolta in quella tremenda esperienza di guerra che si concluse con la tragica ritirata e l’ecatombe dei nostri soldati.
Oltre ai morti in battaglia per circa sessantacinquemila famiglie italiane la guerra non finì nel 1945, perché esse non riuscirono ad avere la certezza della morte dei propri congiunti; si è trattato di una sorta di mistero sul destino di una armata letteralmente scomparsa nella neve, in un inverno eccezionalmente freddo, come quello del 1942/43; incertezza che è durata fino a metà degli anni ’90.
Un’armata composta per la gran parte di giovani di leva che con il servizio militare, forse, per la prima volta avevano varcato i confini del loro comune o della loro provincia.
Così era anche per i giovani del Comune di Borgo a Mozzano; anche se non mancavano uomini non più giovanissimi che si erano offerti volontari, come Francesco Lotti, ragioniere capo del Comune, maggiore dei bersaglieri e segretario “storico” del fascio locale, il cui nome ricorre nelle lettere di alcuni nostri soldati che l’hanno incontrato in Russia o che hanno saputo della sua presenza nelle postazioni di comando.
Il problema dei “dispersi” è un problema esistito solo con il regime sovietico; che ha fatto soffrire per decenni le famiglie e i reduci che cercavano di capire cosa fosse accaduto a migliaia di loro commilitoni.
Non dimentichiamo che, periodicamente, e fino al 1956, dalla Russia continuarono ad essere rimpatriati prigionieri di cui si era perso le tracce e che erano stati tenuti nei campi di concentramento o di lavoro delle varie regioni russe.
Recenti calcoli hanno dimostrato che complessivamente in tutta la campagna di Russia furono 95 mila i soldati italiani che non fecero ritorno in patria con i resti del corpo di spedizione. Di questi 25 mila morirono in battaglia o nel corso delle esecuzioni sommarie seguite alla resa del gennaio ’43 e 70 mila furono catturati.
Ma dei 70 mila, ben 20 mila morirono nelle marce verso i campi, 40 mila morirono nei lager e solo 10 mila (10.087) sopravvissero e furono poi rimpatriati. (2)
Anche nella mia famiglia sentivo parlare spesso di questo problema; degli appelli alla Croce Rossa, degli appelli agli uomini di stato e ai politici che visitavano l’Unione Sovietica; ma il silenzio e le menzogne prevalevano sulla verità; con l’ausilio della guerra fredda e della paura di reazioni del più forte partito comunista dell’ Europa occidentale.
Giampiero Brancoli, infaticabile presidente lucchese dell’associazione reduci della Russia in ogni suo accalorato discorso, di fronte a reduci e autorità, ricordava sempre, creando talvolta imbarazzo tra i presenti, la sciagurata lettera scritta da Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco (allora funzionario del Komintern) il 15 febbraio 1943. Nella lettera Togliatti dice testualmente. “……..Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antitodi………..”.
Tutte le guerre sono sbagliate; e l’aggressione all’Unione Sovietica è una delle più sbagliate.
Ma la civiltà degli uomini e le convenzioni internazionali avevano sempre cercato di ottenere il rispetto dei prigionieri e la memoria dei morti.
Cose che nella tragica campagna di Russia sono state negate.
“Del resto, l’Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra e quindi non riconosceva le norme che garantivano il corretto trattamento dei prigionieri di guerra. (…….) I prigionieri vennero smistati in oltre 400 campi (alcuni ai confini con L’afghanistan e la Cina) allestiti in tutta fretta e spesso privi delle più elementari infrastrutture”.
I nomi di questi campi – Krinovaja, Oranki, Susdal, Tambov – ritorneranno spesso anche nelle comunicazioni di morte dei nostri soldati ricordati in questo libro.
Se si volesse trovare una giustificazione alla situazione si può fare riferimento ad una dichiarazione dell’ambasciatore italiano Pietro Quaroni dei primi mesi del 1945, riportata nel libro, già citato, “Reduci alla sbarra” di Alessandro Frigerio e riferita al comportamento dei sovietici: “Questa gente è abituata a tutt’altra concezione dei rapporti umani. Qui non si sono mai occupati dei loro prigionieri (….) Nell’esercito sovietico, salvo che per i generali, non si comunica alla famiglia che il proprio congiunto è morto, la gente si sbrighi da sé. Il combattente che cessa di scrivere, probabilmente è morto, se non è morto riprenderà a scrivere. Oppure lo rivedrete a guerra finita”.
E una possibile giustificazione potrebbe venire anche dal fatto che le forze armate russe hanno subito nel secondo conflitto mondiale più di otto milioni di vittime ed oltre quattro milioni tra dispersi e prigionieri; il problema dei nostri 95 mila soldati poteva apparire un problema tutto sommato marginale.
Nel 1993, appena caduto il regime sovietico, con l’allora Presidente della Misericordie d’Italia Francesco Giannelli, ebbi occasione di fare un viaggio a Mosca, mettendomi anch’io sulle tracce dei documenti di quegli archivi segreti che potevano darci notizie dei nostri soldati; ho potuto vedere di persona le schede che contenevano, con ragionieristica precisione, i nomi e la storia dei nostri dispersi, di cui era stata negata per cinquant’anni l’esistenza; c’erano anche degli effetti personali.
Proprio in quei giorni, nello stesso albergo in cui mi trovavo come esponente delle Misericordie italiane c’era una delegazione della Presidenza del Consiglio italiano che stava per ottenere la consegna degli elenchi dei nostri soldati “dispersi”.
Un giornalista della Rai, Pino Scaccia, in un libro da lui scritto, dal titolo “ARMIR: sulle tracce di un esercito perduto” scrive: “la scoperta dell’esistenza del macabro archivio di Mosca aggiunge sgomento allo sgomento, orrore all’orrore. Più che l’esistenza di questo schedario della morte inorridisce il silenzio che l’ha custodito, l’improntitudine estrema con cui i dirigenti dell’Unione Sovietica hanno, per mezzo secolo, negato le notizie che venivano richieste dalle famiglie dei dispersi. La sepoltura delle informazioni è stato verosimilmente il peggiore dei crimini perpetrati in nome della ragione di stato dal regime sovietico, l’insulto più feroce rivolto alla memoria di milioni di soldati coinvolti nella tragedia della guerra”.
Per conoscere la verità è dovuto cadere il muro di Berlino, è dovuto cadere il regime.
Ed allora sono cominciati ad uscire dall’oblio anche i nostri giovani, come “Andreini Gino – classe 1920 – deceduto il 6 marzo 1943 per cause sconosciute in Russia mentre era internato nel campo 188 di Tambov – Regione di Tambov”.
Nel libro già citato Pino Scaccia, a pagina 87, scrive: “campo n. 188 di Tambov: il comando del campo era stato dato ai rumeni che bastonavano e mandavano al lavoro anche i malati. Per il tifo petecchiale e la diarrea ogni giorno morivano centinaia di prigionieri”.
Anche mio zio Armando è morto a Tambov ; anche Bianchi Marino – classe 1916 – deve intendersi deceduto il 21/9/1943 nel campo n. 188 di Tambov. La comunicazione alla famiglia arriva il 15/5/1997.
Vannini Lino – classe 1915 – già dichiarato disperso è stato catturato dalla FF.AA. russe – internato nel campo n. 188 di Tambov ove è deceduto il 22/3/1943.
La comunicazione è pervenuta il 7/11/1997.
Così è stato per Luciani Egidio, per Motroni Giuseppe, per Pini Giuseppe, per Puccinelli Gino, per Simonetti Enrico, per Trafieri Uliviero; tutti morti per “cause imprecisate” e sepolti in “località sconosciute”.
Anche il Sergente Maggiore del “Saluzzo” Mario Ricciarelli è morto a Tambov.
Scrive ancora Pino Scaccia: “Campo n. 188 di Tambov – in questo campo di 23 mila prigionieri dal novembre 1942 al giugno 1943 rimasero solamente in tremilaquattrocento”.
In questi famigerati campi, che erano centinaia nella immensa terra di Russia, sono morti i nostri giovani insieme a centinaia di migliaia di uomini degli eserciti sconfitti.
Anche uccidere e far morire i prigionieri è genocidio. Ma i vincitori non si processano mai!
Oggi in questo libro finalmente coloro che sono stati parte di un tragico destino tornano a vivere, impettiti nelle loro pose di “foto Togneri”, nelle loro divise grigioverde, mentre sorridono alla vita.
Di qualcuno abbiamo trovato le lettere conservate come reliquie dalle famiglie, dove parlano delle terre che hanno visto, della fame che li accompagna, del freddo che sta arrivando, del tabacco e delle “cartine” da fumo conservate con religiosa cura.
Scrivono in modo semplice, stanno attenti alla censura, pensano ai cari che sono rimasti a casa; sanno di non poterli aiutare con le forti braccia nei lavori agricoli o nelle fatiche domestiche; tranquillizzano i genitori, mandano i saluti alle morose, inviano i soldi della paga per aiutare la famiglia e per costituire un gruzzolo che gli permetterà di formare una propria famiglia, appena rientrati da questa brutta avventura; fanno progetti per quando torneranno e riabbracceranno i figli piccoli che hanno lasciato a casa o che sono nati dopo la loro partenza, di cui sognano l’immagine attraverso al descrizione dei famigliari;recitano il rosario ogni sera attorno alla stufa nella isba; qualcuno accenna alla gloria che si stanno conquistando, alla grandezza della patria e all’orgoglio di tornare vincitori.
Anche se siamo arrivati troppo tardi, affidiamo alla memoria di una comunità una storia difficile da capire per chi non l’abbia vista negli occhi tristi dei nostri genitori, come è capitato a me e a Marcello, o nello sguardo perso nel vuoto di qualche madre, sorella o vedova che ogni anno si sono ritrovate alla chiesina della Rocca, dove i reduci dell’Associazione Nazionale Alpini hanno voluto che fossero tutti e per sempre “presenti alla bandiera” coloro che “erano andati avanti”.
Con il ricordo e la memoria di questo libro ai nostri cari, finalmente, abbiamo deposto un fiore sulla loro introvabile sepoltura.
La realizzazione di questo libro/memoria è merito soprattutto del carissimo amico (da sempre) Marcello Martini con cui ho condiviso l’idea di questa ricerca e di questa pubblicazione, ma che, in pratica, si è sobbarcato l’onere della ricerca dei documenti e dei contatti con le famiglie, per tentare di far riemergere quel poco che ancora poteva essere trovato, prima dell’oblio definitivo.
Purtroppo siamo arrivati fuori tempo; con trenta o quaranta anni di ritardo; quando le mamme, le spose, i familiari più stretti erano ormai scomparsi e la memoria appannata.
Ma non sempre si scelgono i tempi, a volte i tempi scelgono noi.
Con Marcello Martini ho condiviso l’interesse per la storia, controversa e difficile, della seconda guerra mondiale e degli anni che la precedettero e la seguirono; di quel novecento di lutti e tragedie, di guerre combattute non solo al fronte, di deportazioni e stragi; il secolo dei lager e dei gulag; il secolo della shoah.
Entrambi siamo nati pochi anni dopo la conclusione di quella guerra e nella nostra infanzia e giovinezza abbiamo respirato l’aria ancora ammorbata dagli odii e dalle divisioni profonde; anche se i più cercavano di rimuovere dalla memoria i ricordi più brutti e la tristezza dal cuore.
Entrambi i nostri padri erano reduci della campagna di Russia ed i loro racconti della lunga tradotta che attraversava una Europa sconosciuta, sull’avanzata nelle steppe sterminate e sulla tragica ritirata del gennaio ‘43 non saranno mai dimenticati.
Mio padre, Carlo Settimo, era un alpino della Cuneense, quella che la storia ha chiamato la “divisione martire” ed ha fatto la ritirata, iniziata il 17 gennaio 1943, festa di S. Antonio Abate, nelle condizioni peggiori, con un piede congelato; salvandosi grazie all’aiuto generoso di un compaesano dello stesso Battaglione (il Saluzzo) e della stessa Compagnia (la 21a) che lo aveva sorretto ed aiutato: si tratta di Mario Ricciarelli, sergente maggiore della Cuneense che, purtroppo, è scomparso nella terribile tormenta.
Il giorno 26 gennaio mio padre partecipa alla battaglia di Nicolaieska insieme agli alpini della Tridentina con cui, dopo lo sbandamento ed annientamento della Cuneense, si era ritrovato.
Per lui la ritirata si conclude il 5 febbraio a Bielgorad, dove viene caricato su una tradotta, portato a Leopoli e di lì in Italia e ricoverato all’Ospedale Militare di Cervia (rientrò ad Oneta il 25 maggio 1943).
Anche un mio zio, Armando Brunini, caporale del 4° reggimento di artiglieria alpina della Divisione Cuneense è tra i “dispersi” e, come è stato per migliaia di congiunti, nella più segreta parte del cervello di mio padre era coltivata la speranza che un giorno, forse, si sarebbe saputo che Armando era vivo, in qualche sperduta parte della immensa Russia, dove i prigionieri era stati portati a lavorare.
Perfino diversi films nel dopoguerra, ultimo “I girasoli” di Zavattini, del 1969, con Marcello Mastroianni e Sofia Loren, avevano alimentato questo possibile sogno.
All’inizio del conflitto mio padre e due suoi fratelli (Armando ed Enrico) erano contemporaneamente sotto le armi, nel corpo degli alpini. Enrico, reduce dai Balcani, essendo padre di una bambina (Annamaria Brunini) ottenne la possibilità del congedo e rientrò ad Oneta, mentre i due fratelli partivano per la Russia il 5 agosto 1942.
Il 6 settembre del 1994 quando, dopo il crollo del regime comunista sovietico, si aprirono finalmente gli archivi segreti e furono accessibili gli elenchi meticolosamente tenuti da quei perfetti contabili di morte che gestivano i lager, si ebbe notizia che il “caporale Armando Brunini - nato a Oneta il 31/07/1917 -ritenuto disperso sul fronte russo il 31/01/1943 per eventi bellici, è deceduto, durante l’anno 1943, dopo essere stato fatto prigioniero, nel lager sovietico n.56 Uciostoje – Staz. Chobotovo – Reg. Tambov e sepolto in una fossa comune”; questa la fredda lettera della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ricevuta da tante famiglie in quei mesi.
Mio padre rimase profondamente turbato da quella comunicazione, La domenica precedente l’arrivo della missiva, il 4 settembre, c’era stata una bellissima festa degli alpini al Borgo e, per l’ occasione, mio padre aveva invitato il suo comandante di compagnia in Russia, il capitano Domenico Mina, di Saluzzo; fu il loro ultimo incontro.
Il successivo 22 ottobre mio padre morì; si ricongiunse, nel “Paradiso di Cantore” a suo fratello Armando, che non vedeva dal lontano Natale del 1942, quando avevano passato qualche ora insieme sul Don, pensando alle cose più care del loro paese di Oneta, alle fidanzate, a tanti ricordi che in quel giorno apparivano così belli e così tanto diversi dalla triste condizione che, in quel freddissimo Natale, si trovavano a vivere, a migliaia di chilometri di distanza dalla propria terra.
Il nostro Comune di Borgo a Mozzano, come gli altri comuni della valle del Serchio era, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, zona di reclutamento alpino e, pertanto, la maggior parte dei giovani chiamati al servizio militare erano destinati alle grandi divisioni alpine che avevano le loro caserme nell’Italia del nord, alle propaggini delle alpi.
All’inizio degli anni ’40 dal nostro territorio le reclute vennero avviate, principalmente, alla divisione Cuneense che aveva sede proprio nella provincia piemontese, da cui traeva il grosso dei propri effettivi. Alpini del nostro Comune si ritrovano anche nelle divisioni Julia e Tridentina, presenti in Russia assieme alla Cuneense.
Le prime partenze per il fronte russo avvennero nel 1941, quando sotto la guida del generale Giovanni Messe partì un contingente di 62.000 uomini inquadrati nel CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia). Due le divisioni autotrasportate, la Pasubio e la Torino , più una divisione celere.
Nel 1942 l’Italia decise di aumentare la forza del proprio contingente , scaraventando nell’impresa altri 170.000 uomini e trasformando il corpo di spedizione in una vera e propria armata, l’ARMIR (Armata Italiana in Russia – 8a armata). Con le partenze del luglio e agosto 1942 (molti dei soldati citati in questo libro partirono con questo contingente) l’ARMIR arrivò a 230.000 uomini inquadrati in dieci divisioni, le tre dell’ex CSIR, le divisioni alpine Tridentina, Julia e Cuneense più le divisioni Sforzesca, Cosseria, Ravenna e Vicenza. L’area operativa fu in prima linea, lungo il Don, tra l’armata ungherese e quella rumena, a presidio del fianco settentrionale del cuneo tedesco su Stalingrado. Alla guida dell’armata fu designato il generale Italo Gariboldi.
La partenza delle Divisioni alpine per la Russia fece si che la maggior parte dei nostri giovani fosse coinvolta in quella tremenda esperienza di guerra che si concluse con la tragica ritirata e l’ecatombe dei nostri soldati.
Oltre ai morti in battaglia per circa sessantacinquemila famiglie italiane la guerra non finì nel 1945, perché esse non riuscirono ad avere la certezza della morte dei propri congiunti; si è trattato di una sorta di mistero sul destino di una armata letteralmente scomparsa nella neve, in un inverno eccezionalmente freddo, come quello del 1942/43; incertezza che è durata fino a metà degli anni ’90.
Un’armata composta per la gran parte di giovani di leva che con il servizio militare, forse, per la prima volta avevano varcato i confini del loro comune o della loro provincia.
Così era anche per i giovani del Comune di Borgo a Mozzano; anche se non mancavano uomini non più giovanissimi che si erano offerti volontari, come Francesco Lotti, ragioniere capo del Comune, maggiore dei bersaglieri e segretario “storico” del fascio locale, il cui nome ricorre nelle lettere di alcuni nostri soldati che l’hanno incontrato in Russia o che hanno saputo della sua presenza nelle postazioni di comando.
Il problema dei “dispersi” è un problema esistito solo con il regime sovietico; che ha fatto soffrire per decenni le famiglie e i reduci che cercavano di capire cosa fosse accaduto a migliaia di loro commilitoni.
Non dimentichiamo che, periodicamente, e fino al 1956, dalla Russia continuarono ad essere rimpatriati prigionieri di cui si era perso le tracce e che erano stati tenuti nei campi di concentramento o di lavoro delle varie regioni russe.
Recenti calcoli hanno dimostrato che complessivamente in tutta la campagna di Russia furono 95 mila i soldati italiani che non fecero ritorno in patria con i resti del corpo di spedizione. Di questi 25 mila morirono in battaglia o nel corso delle esecuzioni sommarie seguite alla resa del gennaio ’43 e 70 mila furono catturati.
Ma dei 70 mila, ben 20 mila morirono nelle marce verso i campi, 40 mila morirono nei lager e solo 10 mila (10.087) sopravvissero e furono poi rimpatriati. (2)
Anche nella mia famiglia sentivo parlare spesso di questo problema; degli appelli alla Croce Rossa, degli appelli agli uomini di stato e ai politici che visitavano l’Unione Sovietica; ma il silenzio e le menzogne prevalevano sulla verità; con l’ausilio della guerra fredda e della paura di reazioni del più forte partito comunista dell’ Europa occidentale.
Giampiero Brancoli, infaticabile presidente lucchese dell’associazione reduci della Russia in ogni suo accalorato discorso, di fronte a reduci e autorità, ricordava sempre, creando talvolta imbarazzo tra i presenti, la sciagurata lettera scritta da Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco (allora funzionario del Komintern) il 15 febbraio 1943. Nella lettera Togliatti dice testualmente. “……..Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antitodi………..”.
Tutte le guerre sono sbagliate; e l’aggressione all’Unione Sovietica è una delle più sbagliate.
Ma la civiltà degli uomini e le convenzioni internazionali avevano sempre cercato di ottenere il rispetto dei prigionieri e la memoria dei morti.
Cose che nella tragica campagna di Russia sono state negate.
“Del resto, l’Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra e quindi non riconosceva le norme che garantivano il corretto trattamento dei prigionieri di guerra. (…….) I prigionieri vennero smistati in oltre 400 campi (alcuni ai confini con L’afghanistan e la Cina) allestiti in tutta fretta e spesso privi delle più elementari infrastrutture”.
I nomi di questi campi – Krinovaja, Oranki, Susdal, Tambov – ritorneranno spesso anche nelle comunicazioni di morte dei nostri soldati ricordati in questo libro.
Se si volesse trovare una giustificazione alla situazione si può fare riferimento ad una dichiarazione dell’ambasciatore italiano Pietro Quaroni dei primi mesi del 1945, riportata nel libro, già citato, “Reduci alla sbarra” di Alessandro Frigerio e riferita al comportamento dei sovietici: “Questa gente è abituata a tutt’altra concezione dei rapporti umani. Qui non si sono mai occupati dei loro prigionieri (….) Nell’esercito sovietico, salvo che per i generali, non si comunica alla famiglia che il proprio congiunto è morto, la gente si sbrighi da sé. Il combattente che cessa di scrivere, probabilmente è morto, se non è morto riprenderà a scrivere. Oppure lo rivedrete a guerra finita”.
E una possibile giustificazione potrebbe venire anche dal fatto che le forze armate russe hanno subito nel secondo conflitto mondiale più di otto milioni di vittime ed oltre quattro milioni tra dispersi e prigionieri; il problema dei nostri 95 mila soldati poteva apparire un problema tutto sommato marginale.
Nel 1993, appena caduto il regime sovietico, con l’allora Presidente della Misericordie d’Italia Francesco Giannelli, ebbi occasione di fare un viaggio a Mosca, mettendomi anch’io sulle tracce dei documenti di quegli archivi segreti che potevano darci notizie dei nostri soldati; ho potuto vedere di persona le schede che contenevano, con ragionieristica precisione, i nomi e la storia dei nostri dispersi, di cui era stata negata per cinquant’anni l’esistenza; c’erano anche degli effetti personali.
Proprio in quei giorni, nello stesso albergo in cui mi trovavo come esponente delle Misericordie italiane c’era una delegazione della Presidenza del Consiglio italiano che stava per ottenere la consegna degli elenchi dei nostri soldati “dispersi”.
Un giornalista della Rai, Pino Scaccia, in un libro da lui scritto, dal titolo “ARMIR: sulle tracce di un esercito perduto” scrive: “la scoperta dell’esistenza del macabro archivio di Mosca aggiunge sgomento allo sgomento, orrore all’orrore. Più che l’esistenza di questo schedario della morte inorridisce il silenzio che l’ha custodito, l’improntitudine estrema con cui i dirigenti dell’Unione Sovietica hanno, per mezzo secolo, negato le notizie che venivano richieste dalle famiglie dei dispersi. La sepoltura delle informazioni è stato verosimilmente il peggiore dei crimini perpetrati in nome della ragione di stato dal regime sovietico, l’insulto più feroce rivolto alla memoria di milioni di soldati coinvolti nella tragedia della guerra”.
Per conoscere la verità è dovuto cadere il muro di Berlino, è dovuto cadere il regime.
Ed allora sono cominciati ad uscire dall’oblio anche i nostri giovani, come “Andreini Gino – classe 1920 – deceduto il 6 marzo 1943 per cause sconosciute in Russia mentre era internato nel campo 188 di Tambov – Regione di Tambov”.
Nel libro già citato Pino Scaccia, a pagina 87, scrive: “campo n. 188 di Tambov: il comando del campo era stato dato ai rumeni che bastonavano e mandavano al lavoro anche i malati. Per il tifo petecchiale e la diarrea ogni giorno morivano centinaia di prigionieri”.
Anche mio zio Armando è morto a Tambov ; anche Bianchi Marino – classe 1916 – deve intendersi deceduto il 21/9/1943 nel campo n. 188 di Tambov. La comunicazione alla famiglia arriva il 15/5/1997.
Vannini Lino – classe 1915 – già dichiarato disperso è stato catturato dalla FF.AA. russe – internato nel campo n. 188 di Tambov ove è deceduto il 22/3/1943.
La comunicazione è pervenuta il 7/11/1997.
Così è stato per Luciani Egidio, per Motroni Giuseppe, per Pini Giuseppe, per Puccinelli Gino, per Simonetti Enrico, per Trafieri Uliviero; tutti morti per “cause imprecisate” e sepolti in “località sconosciute”.
Anche il Sergente Maggiore del “Saluzzo” Mario Ricciarelli è morto a Tambov.
Scrive ancora Pino Scaccia: “Campo n. 188 di Tambov – in questo campo di 23 mila prigionieri dal novembre 1942 al giugno 1943 rimasero solamente in tremilaquattrocento”.
In questi famigerati campi, che erano centinaia nella immensa terra di Russia, sono morti i nostri giovani insieme a centinaia di migliaia di uomini degli eserciti sconfitti.
Anche uccidere e far morire i prigionieri è genocidio. Ma i vincitori non si processano mai!
Oggi in questo libro finalmente coloro che sono stati parte di un tragico destino tornano a vivere, impettiti nelle loro pose di “foto Togneri”, nelle loro divise grigioverde, mentre sorridono alla vita.
Di qualcuno abbiamo trovato le lettere conservate come reliquie dalle famiglie, dove parlano delle terre che hanno visto, della fame che li accompagna, del freddo che sta arrivando, del tabacco e delle “cartine” da fumo conservate con religiosa cura.
Scrivono in modo semplice, stanno attenti alla censura, pensano ai cari che sono rimasti a casa; sanno di non poterli aiutare con le forti braccia nei lavori agricoli o nelle fatiche domestiche; tranquillizzano i genitori, mandano i saluti alle morose, inviano i soldi della paga per aiutare la famiglia e per costituire un gruzzolo che gli permetterà di formare una propria famiglia, appena rientrati da questa brutta avventura; fanno progetti per quando torneranno e riabbracceranno i figli piccoli che hanno lasciato a casa o che sono nati dopo la loro partenza, di cui sognano l’immagine attraverso al descrizione dei famigliari;recitano il rosario ogni sera attorno alla stufa nella isba; qualcuno accenna alla gloria che si stanno conquistando, alla grandezza della patria e all’orgoglio di tornare vincitori.
Anche se siamo arrivati troppo tardi, affidiamo alla memoria di una comunità una storia difficile da capire per chi non l’abbia vista negli occhi tristi dei nostri genitori, come è capitato a me e a Marcello, o nello sguardo perso nel vuoto di qualche madre, sorella o vedova che ogni anno si sono ritrovate alla chiesina della Rocca, dove i reduci dell’Associazione Nazionale Alpini hanno voluto che fossero tutti e per sempre “presenti alla bandiera” coloro che “erano andati avanti”.
Con il ricordo e la memoria di questo libro ai nostri cari, finalmente, abbiamo deposto un fiore sulla loro introvabile sepoltura.
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Alla presentazione del libro, che fu fatta dal giornalista Rai Pino Scaccia e dall'avvocato Marco Brancoli Pantera, intervenne un numerosissimo pubblico, che il Salone delle Feste, a stento, riuscì a contenere.
Letture e musiche furono a cura di Piero Nannini con la partecipazione di Elisabetta Della Santa - soprano, Fabio Ciardella - tenore, Caterina Brunini - flauto, Letizia Guastucci - Violino e Ilaria Brunini - Pianoforte.
Letture e musiche furono a cura di Piero Nannini con la partecipazione di Elisabetta Della Santa - soprano, Fabio Ciardella - tenore, Caterina Brunini - flauto, Letizia Guastucci - Violino e Ilaria Brunini - Pianoforte.
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Alcuni testi consultati per la redazione del libro:
7 RUBLI AL CAPPELLANO di Guido Maurilio Turla - Ite Milano,
ALPINI DI GARFAGNANA di Lorenzo Angelini - Edizioni Comunità Montana Garfagnana,
ARMIR SULLE TRACCE DI UN ESERCITO PERDUTO di Pino Scaccia - Nuova Eri,
I PIU’ NON RITORNANO di Eugenio Corti - Mursia,
IL NATALE DEGLI ALPINI di Giulio Bedeschi - Mursia,
IL SEGRETO DEGLI ALPINI di Giulio Bedeschi - Mursia,
IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA di Vincenzo Di Michele - Mef Firenze,
ITALIANZY KAPUTT di Emilio Battisti, Mario Carloni e altri - Centro Editoriale Nazionale,
L’EROICA “CUNEENSE” STORIA DELLA DIVISIONE MARTIRE di Aldo Rasero - Mursia,
LA CUNEENSE di Libero Porcari - L’Arciere,
ELIO CARLI L’UOMO E L’ALPINO di Roberto Andreuccetti - Tipografia Amaducci,
MEMORIE DI GUERRA di Giuseppe Sartini - Edizione Comune Borgo a Mozzano,
NOTE DI UN REDIVIVO di Cesare Fumagalli - Editore Bama,
PRIGIONIERO IN RUSSIA di Lelio Zoccai - Mursia,
REDUCI ALLA SBARRA di Alessandro Frigerio - Mursia.
7 RUBLI AL CAPPELLANO di Guido Maurilio Turla - Ite Milano,
ALPINI DI GARFAGNANA di Lorenzo Angelini - Edizioni Comunità Montana Garfagnana,
ARMIR SULLE TRACCE DI UN ESERCITO PERDUTO di Pino Scaccia - Nuova Eri,
I PIU’ NON RITORNANO di Eugenio Corti - Mursia,
IL NATALE DEGLI ALPINI di Giulio Bedeschi - Mursia,
IL SEGRETO DEGLI ALPINI di Giulio Bedeschi - Mursia,
IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA di Vincenzo Di Michele - Mef Firenze,
ITALIANZY KAPUTT di Emilio Battisti, Mario Carloni e altri - Centro Editoriale Nazionale,
L’EROICA “CUNEENSE” STORIA DELLA DIVISIONE MARTIRE di Aldo Rasero - Mursia,
LA CUNEENSE di Libero Porcari - L’Arciere,
ELIO CARLI L’UOMO E L’ALPINO di Roberto Andreuccetti - Tipografia Amaducci,
MEMORIE DI GUERRA di Giuseppe Sartini - Edizione Comune Borgo a Mozzano,
NOTE DI UN REDIVIVO di Cesare Fumagalli - Editore Bama,
PRIGIONIERO IN RUSSIA di Lelio Zoccai - Mursia,
REDUCI ALLA SBARRA di Alessandro Frigerio - Mursia.